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“Smettete di odiare gli insetti”

01set2011

LA STAMPA – SCIENZA – 5/9/2007, di Giorgio Celli

Quando, durante una cena, qualcuno svela a un commensale ignaro che io sono un professore di entomologia e che, in parole povere, ho passato tutta la vita a occuparmi di insetti, vedo un certo stupore, e talora un’espressione di divertimento, sul volto di chi ha ricevuto l’informazione.

Perchè, diciamolo pure francamente, tra gli animali, gli insetti sono di sicuro i meno popolari e l’entomologo, come icona tradizionale, è un ometto in calzoni corti, che si aggira per i campi agitando un retino. Eppure, come sosteneva con un certo umorismo Haldane, uno dei più prestigiosi genetisti del secolo appena passato, Dio avrebbe avuto una predilezione particolare per questi straordinari organismi, avendoli creati in gran numero, un milione più o meno di specie, contro, per esempio, non più di 10 mila specie di uccelli. E l’ometto con il retino si trova, di conseguenza, di fronte a problemi che non esito a definire giganteschi.

Perché gran parte di questi animali di piccole dimensioni, ma pressoché presenti in ogni parte delle terre emerse, si nutrono di vegetali e sembra abbiano una spiccata preferenza per le piante coltivate. Per cui, tonnellate di derrate, che vorremmo fossero destinate alla nostra mensa, finiscono nelle fauci di questi minuscoli, ma efficientissimi divoratori. Questo problema, che risale alla remota preistoria, fin alle origini dell’agricoltura, si è tentato di risolverlo, nel Novecento, con un rimedio che a conti fatti ha messo in discussione l’ecologia dell’intero pianeta.

Un po’ prima della metà del secolo scorso sono apparse sui mercati delle molecole del tutto nuove, quindi xenobiotiche, con la funzione di uccidere i nostri sgraditi commensali. Ahimè, queste molecole a effetto insetticida sono spesso dei biocidi: ammazzano gli insetti dannosi, ma insieme tutti gli altri, compresi quelli utili, e, a sua volta, la salute dell’uomo ne risulta minacciata, quella dell’agricoltore che li impiega e del consumatore che ne ingerisce quotidianamente dei piccoli residui, mettendo in tavola i prodotti dei campi. L’uso degli insetticidi, che ha avuto inizio, con il DDT, negli Anni 40 del Novecento, è andato crescendo.

Sono comparsi dapprima i fosforganici, dei gas nervini modificati, in seguito i carbammati e più di recente i piretroidi, tutti diffusi, con una vera e propria frenesia consumista, nell’ambiente, provocando un esteso inquinamento. Si pensi che tracce di DDT e di composti analoghi, oggi proscritti quasi ovunque, contaminano ancora il latte materno delle donne Inuit, ai confini della Terra. Perché, come si è capito ormai bene, l’inquinamento del pianeta è un evento globale e tutto va sempre dappertutto. Ma come difendere le nostre colture dal flagello degli insetti, con mezzi più soffici?

Un modo, che risale alla fine dell’Ottocento, e che si ispira alla lotta per la vita di Darwin, chiamato comunemente lotta biologica, consiste nell’opporre agli insetti vegetariani, che divorano i raccolti, gli insetti carnivori, che mangiano questi indiscreti espropriatori. Per avere a disposizione un gran numero dei benefici ausiliari sono nate nel mondo delle biofabbriche, in cui si allevano, si confezionano e si vendono agli agricoltori questi insetti che divorano altri insetti, perché li diffondano sui campi quando se ne presenti la necessità. Con la mia équipe dell’Istituto di Entomologia di Bologna abbiamo fondato una di queste biofabbriche, la sola in Italia, alla periferia di Cesena, che ha preso il nome prima di Biolab, ora di Bioplanet, e che è gestita da una ventina di miei allievi.

Evidentemente, le multinazionali della chimica non hanno mai visto di buon occhio queste attività alternative ai pesticidi e tendono a screditarle come inefficienti. Ma la lotta biologica, in molti casi, funziona e, per crescere, avrebbe bisogno di una volontà politica ambientalista. Assente, o poco convinta, ahimè!

Un’altra delle attività svolte con i miei collaboratori è stata quella del contenimento delle zanzare nella Bassa Bolognese, nei Lidi Ferraresi e nel Parco del delta del Po. L’ipotesi era di far diminuire le popolazioni di queste indiscrete succhiatrici di sangue senza dover diffondere in giro le suddette molecole di sintesi. La strategia consiste nell’individuare i corpi idrici più atti a favorire lo sviluppo delle larve di zanzara per immettere nelle acque una tossina microbiologica, del tutto innocua dal punto di vista ecologico e sanitario, trascurando, se non in casi di emergenza, gli interventi chimici contro gli adulti, che, eseguiti in gran numero, costituiscono una minaccia per la salute. Si prescrive di combattere le radici del male, le larve, mettendo in atto una strategia di interventi puntiformi invece di coinvolgere il territorio.

Un’ulteriore attività svolta nel mio istituto è stata quella, a seguito di una suggestione di Eva Crane, formulata negli Anni 30, di impiegare l’ape come un bioindicatore dell’inquinamento ambientale. Il nostro insetto può venir considerato alla stregua di un sensore mobile: raccoglie nettare e polline sui fiori, acqua nei fossi, propoli sulle gemme degli alberi e può intercettare delle particelle atmosferiche sospese. Questo bottino lo riporta nell’alveare e lo mette a disposizione dei nostri laboratori. I pesticidi sparsi in pieno campo e, prima della benzina verde, il piombo negli agglomerati urbani costituiscono le sostanze di cui l’ape ci ha consentito di fare l’inventario, rivelandosi una sentinella ecologica.

Per quel che vale la distinzione tra scienza applicata e scienza pura, che mi sembra solo un machiavello epistemologico, trovo necessario ricordare che, come etologo, mi occupo anche di ricerche che potrebbero essere giudicate oziose: per esempio, come l’ape vede il mondo, sperimentando se sia come noi sensibile a certe illusioni ottiche. Per concludere, l’icona dell’ometto che insegue le farfalle spero abbia perduto credibilità, restituendo all’entomologo la dignità di biologo e di zoologo.